Ritrovare la bellezza
MONICA
LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 13 febbraio
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Ritrovare
la bellezza, imparare nuovamente a riconoscerla e a godere della sua dimensione
appagante non è questione di rilanciare le mostre d’arte, sovvenzionare con una
legge dello stato le opere letterarie, teatrali, cinematografiche e
multimediali sul tema della bellezza della natura e dei manufatti umani o
promuovere con ogni sforzo tutti gli altri sistemi in cui forme del bello
costituiscono mezzo di profitto, ma è interrogare le coscienze e porsi
il problema di un valore di vita, prima individuale e poi collettivo.
Nelle
numerose riflessioni dedicate dai membri della nostra società scientifica a
questo tema abbiamo rilevato due atteggiamenti principali che seguono il
riconoscimento della bellezza, l’uno superficiale, tendente a ridurre la sua
realtà alla forma attraente di qualcosa, l’altro meditato, tendente a
cercare dentro di sé e nel rapporto con la dimensione etica la sostanza di
un valore.
Non basta
a nostro avviso una presa di coscienza relativa all’importanza del secondo
atteggiamento: per poter elaborare profondamente il senso di questo valore è
necessaria una presa di coscienza più generale circa il monopolio del potere
economico sull’attribuzione del valore. Ossia prendere coscienza dell’esistenza
di una cornice di pensiero sociale acriticamente condiviso perché divenuto un “costume
mentale globale”, un modo di pensare trasmesso da una generazione all’altra
come un valore antropologico, sostenuto dalle sinergie politico-economiche sviluppate
in tutti gli stati nazionali e consistente nel ricondurre ogni aspetto della
vita in maniera diretta o indiretta – e spesso sottintesa – a una stima materiale.
Tale stima materiale implicita tende costantemente a privare di valore ciò che
non è riducibile agli schemi gestiti dagli interpreti di quella che Michel
Foucault chiamava la microfisica del potere.
Non si tratta
dell’ideologia della classe dominante intesa ad asservire le classi subalterne
costituite da poveri o poco abbienti, come al tempo di Marx, ma di una sorta di
religione comune tacitamente trasmessa in famiglia e nei luoghi di lavoro,
attraverso le fiction televisive e le principali narrazioni mediatiche della
realtà contemporanea, nella miriade di frammenti dei social media, spesso
ripresi dai mezzi di comunicazione principali in grado di giungere in ogni
casa. La priorità della stima materiale passa nel modo più
semplice e inapparente attraverso il lessico quotidiano: “È un ristorante da cento
euro, mica da dieci!” o “È un’auto da centomila euro, non è certo un’utilitaria!”;
ma come realmente si mangi in quel ristorante o se l’automobile costosa equivalga
l’utilitaria nel traffico cittadino rimane nel non detto.
La
priorità della stima materiale è drammaticamente illustrata dallo svuotamento
del valore culturale ed etico dello studio e dei titoli che lo riconoscono[1], a favore della strumentalità del reddito che
producono: non importa e non conta tutto ciò che hai studiato – perché nessuno
lo usa più per vivere nello spirito – conta solo quanto guadagni. E se sei un
furbetto che ha fatto appena la scuola dell’obbligo ma ha imparato a investire
in borsa i capitali di famiglia, allora puoi facilmente diventare un modello.
Basta che tu dia una festa mondana in cui si annuncia che devolverai in
beneficenza qualche briciola di ciò che stai sperperando in lusso, alcool e
droghe, alla presenza di un po’ di vip con un buon ufficio stampa e qualche
faccia da copertina, perché tu abbia la “santificazione mediatica” che,
indirettamente, attesta che vali più di tutti quelli che guadagnano poco, anche
se cercano di interpretare valori ideali nell’impegno coerente, fattivo e
perseverante della vita di ogni giorno.
Queste
considerazioni sono tutt’altro che una divagazione dal tema del valore della
bellezza, perché attengono al problema che impedisce nella nostra società il gioco
o la competizione tra priorità – che va dal conflitto interiore alla lotta
sociale – tra valori ideali e necessità materiali; perché subordina tutto,
attraverso la strumentalità, la mercificazione, la monetizzazione e lo svilimento
dei contenuti culturali, alla concezione sottoculturale espressa dal “materialismo
politico-mediatico”.
Storicamente,
fin dall’antichità classica, la possibilità di riconoscere dei valori ideali
indipendenti da quelli strumentali, anzi capaci talvolta di sottometterli, ha
attinto alla forza filosofica del pensiero religioso. L’incommensurabile
di Dio dava luogo e sostegno a tutti quei valori d’affetto individuali e
collettivi che le persone potevano definire inestimabili.
Per i
Greci antichi lo smisurato della natura costituiva un polo di
riferimento assoluto per la ragione che, attraverso la misura, trovava
e creava i mezzi necessari a ricondurre l’esistente della physis alla
dimensione umana del mondo: il lavoro, diremmo oggi di “decodifica
razionale della realtà naturale”, copriva solo una parte dell’esperienza,
mentre il resto, che suscitava meraviglia[2], era affidato alla speculazione degli amanti del
sapere o filosofi.
La cultura
classica era caratterizzata dalla distinzione paradigmatica fra la sconfinata e
indeterminabile natura di tutto quanto è emerso dal kaos primordiale (phusis
o physis) e ciò che l’uomo produce secondo il codice del linguaggio-pensiero
(logos) in un valore simbolico condiviso, secondo i ragionamenti, la misura
(metis) e le convinzioni delle autorità di quel tempo. In altri termini,
i Greci seguivano la distinzione cardinale tra ciò che apparteneva all’ordine fisico,
ossia il naturale, e quanto apparteneva al nomos, per definizione
l’artificiale, perché prodotto dall’intelligenza umana. Tutto ciò che
atteneva al nomos, dai teoremi matematici alle leggi dello stato, era
per definizione soggetto alla ragione, alla “misura”, mentre ciò che atteneva
alla divinità – fatta salva la dimensione dei caratteri antropomorfi degli dei –
rientrava, attraverso il connotato di immortalità, nell’incommensurabile e nell’inestimabile
proprio della physis.
In epoca
presocratica, quando erano ancora in auge i valori della religiosità arcaica,
Anassagora fu condannato perché “affermava che il sole fosse una pietra
infuocata, mentre gli Ateniesi lo consideravano Dio”[3]. Riducendo alla materialità conoscibile e
misurabile della pietra l’inconoscibile dell’astro più importante per l’uomo,
il filosofo minacciava di distruggere il valore assoluto attribuito all’incommensurabile,
da loro assimilato al divino.
Il valore
inestimabile dell’arte imitatrice della natura, originato dalla divinizzazione
dello smisurato inconoscibile della physis[4], ci riporta da un lato allo sviluppo in epoca
platonica della kalokagathia, ovvero la dimensione della coincidenza
della bontà con la bellezza, dall’altro ci fa comprendere la forza raggiunta
dal neoplatonismo rinascimentale in epoca cristiana dal valore dell’arte
sacra: al senso del soggetto divino biblico-evangelico si aggiunge la
perfezione estetica che rinvia all’intoccabile dei Greci.
Nella
storia, dunque, l’incommensurabile di Dio ha sostenuto e favorito lo sviluppo del
valore inestimabile della bellezza[5]. Non soggetto a stima materiale, non riconducibile
alla quantificazione in monete o equivalenti, come ancora oggi possiamo dire di
un sentimento o della vita stessa, il bene immateriale della bellezza ha attraversato
i secoli come dimensione indipendente dello spirito umano e, in quanto tale,
merita oggi la tutela di una conquista di civiltà.
Il nostro
studio nell’ambito della funzione psicoadattativa delle risorse culturali ci ha
condotto alla convinzione della possibilità di impiego efficace della
dimensione della bellezza in funzione di sostegno all’identità della persona.
In altri termini, dedicare alla dimensione della bellezza una parte della
propria vita mentale aiuterebbe l’equilibrio psicologico anche attraverso un
rinforzo del sentimento di sé. Se usciamo dal rassicurante ambito dell’esperienza
soggettiva che trova conferma in una ristretta cerchia di relazione, non basta
più giustificare l’affermazione sulla base della crescita dell’autostima e del
desiderio di realizzazione dei propositi che connotano l’Io alla propria
autocoscienza secondo la fisionomia psichica che ciascuno si attribuisce; dobbiamo
rendere conto a chi ci chiede una risposta in quell’ambito teoretico di confine
tra pensiero filosofico e pensiero psicologico, che ha il pregio di ridurre a
concetti semplici e generali quanto è solitamente descritto nell’analitico
dettaglio della pratica dal lessico specialistico delle numerose, eterogenee e
spesso divergenti teorie psicologiche. E precisamente dobbiamo provare a rispondere
circa il rapporto che può legare, attraverso l’identità, la bellezza all’essere.
Essere è un termine filosofico per eccellenza: una parola
che nel suo nucleo semantico principale si può dire nata presso i Greci, e
nella filosofia greca ha avuto un ruolo paradigmatico di un’importanza assoluta.
Aristotele rimane l’interprete maggiore del valore filosofico del suo
significato che, primariamente, si applica alla totalità di tutto quanto esiste.
Lo Stagirita ci insegna che l’essere, in quanto indicativo dell’esistenza
di qualcosa che possiamo percepire, non necessita di dichiarazione, perché costituisce
un dato e mai un predicato.
L’affascinante
studio etimologico, più volte citato dal nostro presidente al Seminario sull’Arte
del Vivere, ci riconduce alla già menzionata materia che emerge dal caos, alla natura
organica e inorganica designata col termine phusis, la cui radice vuol
dire essere. La parola appartiene alla famiglia lessicale di phuō,
tradotto in italiano con genero, produco o cresco, ma la
cui radice sanscrita bhu-, bhavati vuol dire precisamente essere,
e dà origine al latino fui, perfetto di esse.
Sono i
filosofi cristiani a introdurre una nuova nozione di essere che, pur
conservando la base generica dello spettro semantico di tutto ciò che esiste, prende
a designare un Ente superiore al divenire della phusis, che non ha
ricevuto l’esistenza in un particolare tempo e luogo, ma la esprime come
attributo nella sua precipua dimensione dell’illimitato, che possiamo provare a
immaginare con l’aiuto dell’avverbio sempre: non ha avuto inizio, non
avrà fine.
Sottrarre
l’essere alla natura e trasferirlo totalmente nel Dio Creatore ebraico (JHWH),
dal quale tutto ha preso a esistere, ha certamente consentito di sviluppare
quella visione ordinata del rapporto tra divinità e conoscenza della realtà che
Martin Heidegger chiama l’ontoteologia, ma ha creato agli atei il
problema di un universo fondato sul nulla.
Il
concetto di “essere”, come abbiamo visto, proveniva in origine da una cultura
che aveva concepito una physis di fatto indipendente dalla divinità,
nonostante tutti i miti delle origini sviluppati come trame basate sull’idea di
“una grande madre” o di divinità generatrici emergenti dalle culture di sostrato
nelle teogonie riconosciute, come quella di Esiodo. La persona di JHWH si era
rivelata con la celebre frase riportata e tradotta pedissequamente nella nostra
lingua con tanto di sgrammaticatura, per conservare, anche nella forma, fedeltà
all’originale espressione ebraica: “Io sono colui che sono”, ovvero, Io sono
colui che è, che esiste: l’assoluto dell’esistenza, che sarà interpretato
dagli Ebrei come assoluto della speranza. Era inevitabile l’identificazione
con l’Essere.
Anselmo d’Aosta[6], il celebre teologo che formulò la definizione di
Dio come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, sviluppa un’argomentazione
spesso trascurata e, secondo Salvatore Natoli, non tenuta nella giusta
considerazione: “Dio, infatti, non è solo ciò di cui non si può pensare niente
di maggiore, ma ancor più è maggiore di ogni pensiero… è inattingibile
nel suo essere: nel suo essere lacera la nozione stessa di essere; è maggiore
di ogni pensiero e quindi, se lo si pensa in termini di essere, si rischia di
non pensare a Dio, si precipita in un totale equivoco”[7].
Una
precisa conseguenza della valutazione teologica di Anselmo è il riconoscimento della
dimensione ammirevole attraverso l’intensità affettiva dell’uomo: non si può
pensare e concepire Dio? A chi lo adora non resta altro che la contemplazione
muta e incantata della sua Bellezza.
Sulla
Bellezza del Creatore abbiamo speso parole in scritti precedenti e riflessioni
negli incontri seminariali, alle quali rimandiamo, e in base alle quali
riteniamo che una parte delle concezioni magistralmente sviluppate dai credenti
nel corso dei secoli possano essere condivise anche dai non credenti. Ora, se
siamo d’accordo sul valore psicologico e culturale della bellezza, che può
essere anche spirituale per il credente, per adoperarci al fine della sua
ricomparsa nel mondo è opportuno che prendiamo le mosse da una questione così
espressa nello scritto Alla ricerca della bellezza perduta:
“La bellezza
esiste se qualcuno la riconosce e, con la sua ammirazione e il suo rispetto, la
indica agli altri, consentendo alla facoltà di vederla nelle persone e nel
mondo, insita nel cervello, di rivelarsi[8]. Queste parole, che ci ricordano la relatività di una
categoria trattata spesso come un assoluto, esprimono in sintesi sia la natura
di dimensione reale che nasce e vive per riconoscimento percettivo sia la
funzione rivelatrice ed educativa del mostrare il bello come fa un genitore che
indica a un bambino la bellezza di un tramonto, o un esteta che richiama l’attenzione
su un capolavoro ignorato[9]. Chi riconosce e mostra la bellezza a quanti non riescono
o non sanno più vederla? Il problema del presente sembra proprio essere la
progressiva, lenta ma inarrestabile, perdita di sensibilità etico-estetica e di
interpreti che la coltivino come valore di vita da trasmettere alle generazioni
future”[10].
È quindi
necessario avere interpreti della bellezza che la mostrino agli altri, che le
diano vita, per una ragione espressa in sintesi nello stesso articolo: “perché se
la forma è svuotata della sostanza costituita dall’attualità umana che le dà
vita, si riduce a simulacro di sé stessa”.
A questo
punto è doveroso chiedersi se noi – intendo chi scrive e chi legge queste
parole – ci sentiamo in grado di assolvere il compito di mostrare ciò che è ammirevole.
Credo che dipenda molto da quanto viviamo già come realtà interiore questa
dimensione. Se è vero che i migliori genitori e pedagoghi sono coloro che
insegnano con amore le cose in cui credono, la nostra efficacia sarà
presumibilmente misura della nostra vicinanza a queste figure ideali.
Sono comprensibili,
tuttavia, i dubbi e perfino lo scetticismo circa l’utilità di un impegno
individuale, anche se non isolato, in questo senso.
L’assunzione
delle tesi sulla bellezza svolte negli scritti pubblicati in precedenza, oggi
ci induce a concludere che, per ottenere il ritorno a un reale riconoscimento sociale
del suo valore, non è certo sufficiente la nostra consapevolezza e la solidarietà
da parte dei nostri lettori più sensibili, colti e raffinati, ma occorre un
vasto impegno culturale, anche attraverso università e scuola, per generare una
coscienza diffusa del passivo asservimento collettivo alle dinamiche di senso
che costringono entro una dimensione unificata e gerarchica di attribuzione del
valore in chiave materialistica. E non basta. È necessario che si ritrovi il
gusto di generare l’ammirevole e trasmetterne il valore morale e ideale
attraverso gli atti di un vissuto condiviso, che potrà contribuire ad
alimentare circoli virtuosi di crescita della consapevolezza ed espansione esponenziale
degli interpreti del suo significato più profondo, col risultato di donare
esperienze di bellezza al maggior numero di persone possibile.
Ma, quali potrebbero
essere i toni e i modi che ciascuno di noi dovrebbe impiegare?
Lo studio
che abbiamo fin qui condotto ci induce a ritenere che l’impresa del promuovere
il ritorno nelle coscienze del valore della bellezza quale essenziale
attributo dell’essere non si debba concepire come una protesta sociale, una
battaglia politica o una rivendicazione sindacale, perché non chiediamo per noi
concessioni ai detentori di un potere, ma desideriamo che nasca qualcosa nella
coscienza di tutti; allora ci sembra che il modo migliore di compiere il primo
passo sia invitare a sedersi e riflettere tutti coloro che sono disposti ad
ascoltarci.
L’autrice della nota ringrazia il
presidente, Giuseppe Perrella, con il quale ha sviluppato tutti i contenuti
della discussione e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Monica Lanfredini
BM&L-13 febbraio 2021
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La Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata
presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1]
Ormai da un paio di
generazioni si sente che i giovani laureati fanno “tutti i concorsi”, il che
vuol dire che non importano le conoscenze e le competenze acquisite in corsi di
laurea differenti quali quelli di giurisprudenza, lettere classiche, scienze
politiche, filosofia, informatica, scienze economiche, pedagogia e così via, così
come non si considera che la scelta degli studi sia stata compiuta per un’inclinazione
naturale (come si legge nella Costituzione) e sia parte di un progetto di vita,
perché tutto ciò diventa una forma svilita della sostanza, quando si concorre
in migliaia di persone laureate per ottenere un posto di lavoro per il quale un
tempo bastava la terza media.
[2] Dal verbo greco thaumazō,
meravigliarsi, scrive Platone, viene il nome di Taumante che generò – secondo Esiodo
– Iride, potenza che si rapporta, decifra e trasmette; oltre alla meraviglia
all’origine della filosofia vi è l’incanto (Cfr. C. Sini, Immagini di
verità. Spirali, Milano 1985).
[3] DK, 19; Giuseppe Flavio, Contro
Apione, II 265 (cit. in S. Natoli, Parole della filosofia, p. 120.
Feltrinelli, Milano 2004). La violazione dell’intangibilità ideale della natura
divina del sole da parte di Anassagora può facilmente essere accostata alle
accuse mosse a Galileo Galilei per la descrizione delle macchie solari, circa
due millenni dopo.
[4] La divinizzazione lo rende “intoccabile”.
[5] Qualunque sia l’opinione che abbiamo in proposito, non possiamo negare l’efficacia
storica nella protezione dell’indipendenza del giudizio sul bello garantita da
questa cultura.
[6] Anselmo d’Aosta (1033/34 - 1109),
detto anche Anselmo di Canterbury, dove visse, operò a lungo e morì, o Anselmo
di Le Bec per la sua cultura franca (fu frate presso l’Abbazia di Notre-Dame du
Bec), fu filosofo, arcivescovo, dottore della Chiesa e tra i maggiori teologi
medioevali. Studiato per le sue argomentazioni a dimostrazione dell’esistenza
di Dio; in particolare, l’argomento ontologico ha profondamente
influenzato i filosofi delle epoche successive.
[7] Salvatore Natoli, Parole
della filosofia, p. 99. Feltrinelli, Milano 2004.
[8] Giuseppe Perrella, La
bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 5,
BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro
non più tenuto, causa coronavirus].
[9] Giuseppe Perrella, idem.
[10] Note e Notizie 07-11-20 Alla
ricerca della bellezza perduta.